Nuove etichette anche per le lampadine, migliora l’efficienza energetica

Se per gli elettrodomestici la nuova etichettatura è entrata in vigore già dal primo marzo, dal primo settembre viene applicata anche alle sorgenti luminose. Le nuove etichette energetiche per gli elettrodomestici sono state introdotte in tutta Europa per offrire ai consumatori informazioni più semplici e smart, e migliorare l’efficienza energetica. Per quanto riguarda le sorgenti luminose, come appunto le lampadine, tra le maggiori novità della nuova etichetta c’è il ritorno a una classificazione più semplice, con la scala di 7 classi di efficienza energetica, colorata da verde a rosso, da A (migliore) a G (peggiore). Lo ricorda Selectra, il servizio gratuito che confronta e attiva le tariffe di luce, gas e internet. 

Le nuove etichette evidenziano il consumo di energia

Addio alle classi supplementari caratterizzate dal segno +, ed è previsto anche un riscalaggio periodico, ogni circa 10 anni, o quando una significativa percentuale di modelli sarà presente nelle due classi di efficienza più elevate. Per quanto riguarda le sorgenti luminose, la nuova etichetta energetica diventa obbligatoria per sorgenti luminose con o senza unità di alimentazione integrata, direzionali e non direzionali, sorgenti luminose parte di un prodotto contenitore. Oltre a mostrare il nome o il marchio del costruttore e del modello, le nuove etichette delle sorgenti luminose evidenziano il consumo di energia in kWh se accese per 1.000 ore, e riportando le classi di efficienza energetica, indicano a quale di queste appartiene il modello preso in considerazione.

Parola d’ordine, digitalizzazione

Parola d’ordine, inoltre, è ‘digitalizzazione’: viene infatti introdotto un QR code che scansionato tramite la fotocamera dello smartphone permette di conoscere informazioni supplementari sul prodotto presenti nella banca dati europea Eprel (European product registry for energy labelling).

Ma quali lampadine scegliere?

Per poter emettere luce, una lampadina consuma energia elettrica pari a quanti Watt sono necessari per attivarla, un consumo che finisce infatti direttamente in bolletta luce, alla voce ‘spesa per la materia energia’.
Ogni lampadina ha quindi una potenza espressa in Watt, alla quale sarà associato sull’etichetta un consumo in kWh per 1.000 ore di uso/accensione.

Quali fra Led, fluorescenti o alogene? 

Una lampadina Led, ad esempio, ha un consumo di circa 35 kWh/anno e un costo medio in bolletta di 7 euro/anno. Tale lampadina, con la nuova etichettatura, sarà inserita in classe D o E, a seconda delle prestazioni specifiche. Consumi appena superiori ha una lampadina fluorescente, che con 41 kWh/anno e 8 euro/anno in bolletta finirà in classe F. Un modello alogeno arriva invece a consumare 123 kWh/anno, facendo salire il costo medio in bolletta a 25 euro: tale lampadina finirà in classe G. Senza considerare le lampadine a incandescenza (ormai fuori commercio) che con un consumo di 175 kWh/anno avrebbero portato il costo medio in bolletta a 35 euro/anno.

Aiuto, che spreco: il 17% del cibo mondiale finisce nella spazzatura

Lo spreco alimentare non è solo uno sfregio a quella gran parte di mondo che non ha da vivere, ma è anche un autentico attentato alla sostenibilità ambientale e climatica. A lanciare l’allarme è il nuovo Food Waste Index Report 2021 del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) e l’organizzazione Wrap: nel 2019 sono infatti finiti nella spazzatura  931 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari prodotti ogni anno nella fase di consumo, per un peso equivalente a quello di 23 milioni di camion da 40 tonnellate a pieno carico. Di questi, il 61% è prodotto dalle famiglie, nelle nostre case. E proprio la riduzione degli sprechi alimentari è uno degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, così da dimezzarli entro il 2030. 

I numeri dello spreco a livello mondiale

Più nel dettaglio, il Rapporto evidenzia che le famiglie scartano l’11% di alimenti, mentre servizi e punti vendita al dettaglio ne sprecano rispettivamente il 5% e il 2%. A livello globale vengono gettati 121 chilogrammi di cibo a testa l’anno, con 74 chilogrammi a livello familiare, molto di più di quanto precedentemente stimato. Uno spreco che ha gravissimi impatti ambientali, sociali ed economici.

Una sfida vitale per il clima

Esistono anche strette connessioni tra clima e spreco alimentare. A livello globale, tra l’8 e il 10% delle emissioni di gas serra sono dovute al cibo non consumato. Se lo spreco alimentare rappresentasse un paese, sarebbe il terzo più grande emettitore di gas serra, dietro Cina e Stati Uniti. Riuscire a ridurre il food waste, secondo gli esperti dell’Onu, significherebbe portare a un taglio delle emissioni di gas serra, a rallentare la distruzione della natura attraverso la conversione dei terreni, all’aumento della disponibilità di cibo e quindi ridurre la fame.

Un problema globale da correggere

Contrariamente a quanto suggerito finora dagli studi, lo spreco alimentare dei consumatori non è nemmeno appannaggio dei paesi a più alto reddito. Per Clémentine O’Connor, responsabile del programma per i sistemi alimentari sostenibili presso l’Unep, “E’ il momento di agire”. Lo studio evidenzia infatti che esiste una criticità che riguarda tutti i paesi, che devono necessariamente rendersi conto della gravità della situazione. Proprio per questo, l’Unep sta istituendo gruppi di lavoro in Asia, Sud America e Africa per aiutare i governi a sviluppare strategie per misurare lo spreco e a progettare strategie di prevenzione del food waste. 

La selezione del personale? Da reale a … virtuale, ma super efficace

l Virtual Recruiting, ovvero la selezione del personale a distanza, con relativi colloqui, è ormai una prassi per moltissime aziende. Che ne decantano la validità: mentre sullo smart working i pareri non sono tutti positivi, la selezione a distanza ha convinto invece un gran numero di candidati. Il 60% delle persone intervistate da CleverConnect a maggio 2020 ha trovato l’esperienza positiva. Per le aziende, il lockdown prima e la diffusione dello smart working poi hanno portato a un ripensamento del proprio processo di selezione. L’impossibilità di condurre un colloquio in presenza ha spinto le imprese ad accelerare la digitalizzazione e a optare per colloqui virtuali e da remoto.

Un’attività “non essenziale”: ma è davvero così?

Nel 2020, complice l’emergenza sanitaria, molte attività considerate non essenziali sono state quasi “congelate”, e i colloqui di selezione rischiavano di finire in questo spazio vuoto. Le aziende italiane, però, hanno dimostrato un’eccezionale resilienza e la capacità di innovarsi per poter proseguire nei processi di selezione. Al di là del periodo di crisi, in realtà, già da tempo le imprese stanno sperimentando i colloqui video a distanza, ma durante il lockdown questi hanno registrato un boom del +40%, percentuali in crescita che durano tutt’oggi. I recruiter si sono resi conto che il video è un approccio adatto a risparmiare molto tempo, a favore anche dei candidati. Per alcune posizioni il video può tranquillamente sostituire del tutto il CV o il classico colloquio telefonico. In questi casi, il risparmio di tempo è veramente senza precedenti.

L’evoluzione della ricerca di lavoro

Anche grazie alla tecnologia, gli individui sono al centro del processo di ricerca di un’occupazione. Non per niente, l’89% dei candidati inizia la ricerca di lavoro sul web, visitando portali dedicati, job board e pagine Lavora con noi. Dal momento della candidatura, però, il processo di selezione resta sempre lo stesso: invio del CV, lettera di presentazione, colloquio telefonico, incontro fisico. Le soluzioni digitali, invece, stanno gradualmente scuotendo questo ordine consolidato per offrire un’esperienza innovativa e molto più flessibile. Il tempo che non viene speso per organizzare e programmare gli incontri fisici consente al recruiter di concentrarsi su altre attività ad alto valore aggiunto, come creare una relazione e interagire con i candidati dall’inizio alla fine del processo. Il virtual recruiting, inoltre, aiuta a diversificare il profilo dei candidati e quindi migliora l’efficienza e la qualità delle assunzioni: non limitandosi alle informazioni del CV, ma concentrandosi sulle soft skill, alcuni candidati hanno l’occasione di dimostrarsi profili veramente validi.

Manager e smart working, una ricerca di Fiera Milano Media

Nonostante le imprese italiane sembrano rimanere più propense all’outsourcing anziché all’investimento di risorse per lo sviluppo, l’innovazione e l’automazione della propria attività lo smart working rimane un caposaldo delle strategie di business anche per il futuro. Si tratta di un’evidenza emersa dal report Business Leaders Survey, realizzato da Business International-Fiera Milano Media tra aprile e maggio 2021 su un campione di oltre 200 direttori finance, HR, procurement, sales, marketing e del risk management attivi in alcune delle più importanti società di medie e grandi dimensioni operanti in Italia.

La principale misura di contrasto adottata contro gli impatti del Covid-19

Secondo il 40% degli intervistati lo smart working è stata la principale misura di contrasto adottata contro gli impatti del Covid-19, e su cui un ulteriore 25% dichiara di voler puntare nei prossimi mesi, mentre il 48% ammette di volerlo mantenere stabilmente come modello lavorativo anche per il futuro. Ovviamente la cassa integrazione straordinaria ha avuto un ruolo importante nel superamento delle difficoltà, come conferma il 17,5% degli intervistati. Quello che però stona è il fatto che sebbene solo il 5,5% delle aziende ha bloccato gli investimenti nel 10% dei casi le società hanno preferito esternalizzare l’ottimizzazione dei propri processi operativi piuttosto che provare a puntare sull’innovazione, l’automazione e la robotizzazione dei propri servizi, su cui si è impegnato solo l’1%.

Per il 6% la società in cui lavora ha cambiato il proprio modello di business

Il 6% degli intervistati dichiara poi che la sua società ha cambiato il proprio modello di business per fronteggiare le criticità proposte dalla pandemia, mentre nei prossimi mesi il 13% prevede questo intervento, e gli intervistati che dichiarano di voler implementare soluzioni di robotizzazione e automazione salgono all’8,5% (+850%). Valori in aumento che però non bastano a consentire una reale ondata di cambiamento. Nel 24% dei casi l’attenzione sull’outsourcing continuerà infatti a essere focalizzata anche nei prossimi mesi. In ogni caso, il 23,7% pensa che anche per il futuro resilienza, flessibilità e tolleranza allo stress saranno qualità cruciali per il successo, mentre creatività, originalità e iniziativa risultano al secondo posto (16.3%).

Le competenze desiderate dai C-level per affrontare i prossimi mesi

L’attenzione è ancora su distanziamento sociale e necessaria riorganizzazione delle attività, riporta Italpress, e pone Team work e time management (10%) in terza posizione, seguiti poi a pari merito da formazione e apprendimento continuo (9%) e Critical thinking e predictive analytics (9%).  In fondo alla classica si trovano proprio quelle competenze tecniche che le aziende faticano a trovare sul nostro mercato, come data analysis e innovazione (8,7%), technology use/design, computational thinking & programming (2,7%).
L’ultimo aspetto rilevato dalla ricerca sullo smart working è il fatto che skill come leadership e social influence (8%), problem solving (7,6%) e Intelligenza emotiva (4,8%) risultano in fondo alle competenze desiderate dai C-level per affrontare i prossimi mesi.

Incassi a 64,9 miliardi di dollari per le app, TikTok la regina

Il Covid e i conseguenti periodi di lockdown hanno fatto bene almeno ad un settore, quello delle app. A decretarlo è l’analisi appena diffusa dalla società di analisi Sensor Tower, che ha analizzato l’andamento delle applicazione nel primo semestre del 2021. Quello che appare evidente è che la pandemia ha incrementato l’utilizzo degli smartphone e di altri strumenti digitali, sia per scopo lavorativo che educativo e di intrattenimento. 

Un business gigantesco

Dai dati diffusi da Sensor Tower si scopre che gli utenti di tutto il mondo hanno investito circa 65 miliardi di dollari (per la precisione 64,9 miliardi) su App Store e Google Play Store, con un aumento del 25% rispetto ai 52 miliardi di dollari spesi nello stesso periodo dell’anno scorso. Gli utenti iOS hanno speso quasi il doppio degli utenti Android. La spesa per i giochi mobili ha toccato i 44,7 miliardi di dollari, mentre la categoria dell’intrattenimento ha totalizzato gli incassi maggiori tra le applicazioni non di gaming, con 4,4 miliardi di dollari. Bene anche per la categoria libri, che ha messo a segno un più che ragguardevole giro d’affari di 1,1 miliardi di dollari.

TikTok e Youtube le prime app al di fuori del gaming 

TikTok è stata l’app non di gioco con il maggior incasso sia su App Store sia su Google Play, con gli utenti di tutto il Pianeta che hanno speso più di 920 milioni di dollari su questo social, in crescita del 74% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. YouTube è stata la seconda app non di gioco con il maggior incasso, seguita dall’app  di incontri Tinder, dal reader di fumetti giapponese Piccoma e dalla piattaforma di streaming Disney+.

In percentuale cresce maggiormente Google Play

Secondo Sensor Tower, le installazioni scaricate da Google Play sono aumentate del 6% a 56,2 miliardi, aiutate dalla prevalenza di dispositivi Android nei mercati ancora pesantemente colpiti dalla pandemia, come l’India. L’App Store di Apple ha invece visto un calo delle installazioni, scendendo di circa l’11% a 16,3 miliardi dai 18,3 miliardi dell’anno precedente.

I giochi saldamente sul podio

Grande successo anche per i videogame. La spesa globale ha raggiunto i 44,7 miliardi di dollari nella prima metà del 2021, con un aumento del 17,9% anno su anno. Una crescita che segue quella sperimentata un anno fa, quando il settore dei videogiochi mobili è salito del 25,5%. I giochi con i maggiori incassi sono stati, nell’ordine, Tencent’s Honor of Kings (15 miliardi di dollari), PUBG Mobile (compresa la sua versione localizzata per la Cina, ha raggiunto quasi 1,5 miliardi di dollari, Genshin Impact (848 milioni di dollari), Roblox e Coin Maestro.

Gli eventi digitali continueranno anche nel post pandemia

Il ritorno alla normalità tanto atteso, dopo tutte le limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria, sta finalmente avvenendo. E, sia sul piano personale sia su quello professionale si riprendono via via abitudini accantonate per lunghi mesi. Ad esempio, a breve potranno ripartire anche in Italia fiere, convegni e congressi in presenza, benissimo, un ‘ottima notizia per il settore degli incontri. Eppure, una netta maggioranza delle aziende continua a programmare eventi virtuali o ibridi anche per la fine del 2021 e per il 2022. Questo è quanto emerge da un’indagine interna di Emeraude Escape, secondo cui l’ascesa degli eventi digitali interattivi in ambito B2B non si fermerà nemmeno nell’era post Covid 19.

Un format che piace anche nel new normal 

In particolare, i format virtuali – adottati da una grandissima parte delle imprese nell’impossibilità di svolgere quelli “reali” – hanno molto spesso ottenuto un successo ben oltre le aspettative, riporta la ricerca. Proprio per tale ragione, questa modalità che si è progressivamente affermata dall’inizio della pandemia, pare perdurerà anche in presenza di minori restrizioni e per un periodo di tempo piuttosto lungo. Infatti, in base a un’indagine interna di Emeraude Escape, società francese specializzata nella progettazione di soluzioni di gamification su misura per il business, il 90% delle aziende continuerà a scegliere eventi digitali oppure ibridi, ovvero in parte in presenza e in parte virtuali, al posto di quelli fisici per tutto il 2021 e il 2022.

Si va verso un modello ibrido negli incontri

La tendenza anche per i mesi a venire, quindi, sembra essere orientata verso un modello ibrido anche per quanto riguarda il comparto degli incontri e degli eventi. Come spiega una nota della società che ha condotto la ricerca, infatti, “Oltre ai buoni risultati che si sono potuti riscontrare sul campo, le limitazioni che rimarranno presumibilmente vigenti ancora per molti mesi anche nel nostro paese, come il numero massimo di persone, la necessità di dispositivi di protezione individuale, di frequenti disinfezioni e di altre incombenze, insieme alla maggiore flessibilità e alle nuove opportunità offerte dal digitale, stanno inducendo numerose realtà a preferire gli eventi virtuali o ibridi anche per il prossimo anno”. Si tratta di una previsione viene confermata anche da uno studio recentemente svolto da LinkedIn in Francia, secondo cui il 69% degli organizzatori di eventi B2B ha dichiarato che continuerà a proporre seminari e convegni digitali o ibridi per i prossimi 12 mesi.  

Come “abbassare” la dichiarazione Isee 2021

L’Isee, l’indicatore della situazione socioeconomica del nucleo familiare, o Dsu, dichiarazione sostitutiva unica, è il documento indispensabile per accedere alla maggior parte delle agevolazioni pubbliche. Oltre ad accedere a reddito e pensione di cittadinanza, serve infatti per valutare l’entità o l’esenzione dal pagamento delle tasse universitarie e della mensa scolastica, oppure poter rateizzare il pagamento delle cartelle. La dichiarazione Isee però non sempre rispecchia la situazione reale del nucleo familiare, poiché patrimonio e redditi di tutti i componenti della famiglia risalgono al secondo anno precedente alla presentazione della dichiarazione, e nella composizione del nucleo stesso possono subentrare modifiche.

È possibile aggiornare i redditi del nucleo familiare in tempo reale?

Esiste un modo per far sì che la dichiarazione Isee rispecchi la reale situazione reddituale della famiglia, ovvero, attraverso la presentazione del modello Isee corrente, che aggiorna i redditi del nucleo familiare in tempo reale. La validità dell’Isee corrente è pari a 6 mesi, e decorre dal momento della presentazione del modulo sostitutivo della dichiarazione.
Se però intervengono variazioni nella situazione lavorativa o nel godimento di eventuali trattamenti, l’Isee corrente deve essere aggiornato entro due mesi dalla variazione.
Per presentare questa dichiarazione è necessario che esista già, per lo stesso nucleo familiare, un Isee in corso di validità, e che, dopo il 1° gennaio dell’anno di riferimento dei redditi dell’Isee ordinario, si verifichi uno scostamento della variazione della situazione reddituale complessiva del nucleo familiare, pari almeno al 25% rispetto alla situazione reddituale calcolata con la prima dichiarazione Isee.

Come avvalersi del nucleo familiare ristretto

Uscire dal nucleo familiare per abbassare l’Isee è invece possibile soltanto se si cambia residenza, oppure nel caso in cui ci si possa avvalere del nucleo familiare ristretto per la presentazione di Isee sociosanitario-disabili, che include solo i redditi del disabile, del coniuge e dei figli. Il nucleo familiare ai fini Isee non sempre coincide con la famiglia anagrafica: in alcuni casi si può far parte dello stesso nucleo familiare anche se si ha una residenza differente, si è separati o divorziati. Il figlio maggiorenne non convivente con i genitori, ad esempio, fa parte del nucleo familiare dei genitori esclusivamente quando è di età inferiore a 26 anni, è nella condizione di essere a loro carico a fini Irpef, non è coniugato e non ha figli.

Omettere di dichiarare redditi, beni mobili o immobili è una pessima idea

Dal 2020 ha debuttato l’Isee precompilato: il contribuente, in pratica, trova la dichiarazione Isee nel sito dell’Inps comprensiva di quasi tutte le informazioni occorrenti, come redditi, patrimonio immobiliare e mobiliare. In caso di errori, è possibile effettuare correzioni, ma in caso di controlli è indispensabile conservare la documentazione che comprova la presenza di inesattezze nelle banche dati e la veridicità di quanto dichiarato. Omettere di dichiarare redditi, beni mobili o immobili, riporta Adnkronos, è invece una pessima idea, non solo per le sanzioni penali, ma anche perché, con l’Isee precompilato quasi tutti i dati della dichiarazione saranno conosciuti dall’Inps ancora prima di presentare il modello.

Come proteggere casa: consigli utili

Quella di proteggere casa dai tentativi di intrusione da parte di malintenzionati è una necessità di tutti noi, per rassicurare i nostri familiari e anche i nostri beni più preziosi.

Tuttavia delle volte possiamo avere maggior paura che i ladri possono entrare in casa, soprattutto quando abitiamo ai piani più bassi o quando nel nostro quartiere sempre più spesso si verificano episodi di questo tipo.

Per tale motivo è davvero importante sentirsi al sicuro all’interno della propria abitazione ed evitare che chiunque possa turbare la quiete della famiglia.

Porte robuste e sistema di videosorveglianza

Sicuramente un buon primo passo è quello di adoperare delle porte e finestre che siano solide e di qualità. Ricorda tra l’altro di mettere sempre il blocco della porta nel corso della notte e di chiudere bene finestre e serrande soprattutto se vivi ai piani più bassi.

Un altro tipo di deterrente potrebbe essere quello installare delle telecamere di sorveglianza che possano far desistere eventuali malintenzionati con la loro presenza.

Ad ogni modo, sempre di più questo sistema viene eluso da maschere o altri sistemi di camuffamento adoperati dai malviventi i quali decidono ugualmente di proseguire nel loro intento nonostante la presenza delle telecamere.

Le Inferriate apribili

Se sei alla ricerca di una soluzione veramente efficace ed in grado di garantire una protezione assoluta da qualsiasi tentativo di intrusione in casa, le inferriate apribili rappresentano la prima scelta per te soprattutto se abiti al piano terra.

Queste robuste inferriate realizzate in ferro sono infatti molto resistenti e dunque particolarmente difficili da superare per qualsiasi malvivente, i quali notoriamente hanno soltanto pochi minuti a disposizione per entrare ed uscire con la refurtiva e per tale motivo preferiscono sicuramente spostare le proprie attenzioni su altri appartamenti in cui un sistema di questo tipo non sia presente.

Esistono inoltre le inferriate fisse che vanno collocate sulle aperture come le finestre: queste, a differenza di quelle apribili, non possono essere aperte e chiuse a piacere e rappresentano una barriera fisica che sicuramente può mettere in sicurezza ogni finestra.

Boom del car sharing, gli italiani sono pronti a usarlo regolarmente

Se attualmente solo 3 italiani su 10 (29%) hanno utilizzato il car sharing almeno una volta, questa forma di mobilità condivisa sarà molto più utilizzata nei prossimi 10 anni: il 62% degli italiani infatti è convinto che ne farà uso, e i giovani tra i 18 e i 34 anni sono i più propensi a farne ricorso. Anche il bike sharing dovrebbe registrare un’impennata degli utenti, dato che circa 1 italiano su 2 immagina di poter utilizzare questo servizio, mentre lo scooter sharing sarà scelto da 3 italiani su 10. A rivelarlo è una ricerca BVADoxa per l’Osservatorio Change Lab, Italia 2030, realizzato da Groupama Assicurazioni, che ha voluto indagare i principali trend che entro il 2030 cambieranno le abitudini degli italiani.

Si conferma una propensione verso l’intermodalità
Quanto ai cambiamenti che gli italiani vorrebbero vedere attuati nelle città nei prossimi 10 anni, il 48% indica come obiettivo per il 2030 un aumento di piste ciclabili e una maggiore presenza di mezzi pubblici (47%), confermando quindi una propensione verso l’intermodalità. Questo perché la quasi totalità degli intervistati (94%) risulta pienamente soddisfatta del servizio di car sharing, e ne apprezza il risparmio di tempo (54%) e denaro (47%) e il minor impatto ambientale (34%). Per quanto riguarda il bike sharing, il livello di soddisfazione è leggermente più basso (86%), e se 1 utente su 2 ne apprezza il basso impatto ambientale tra i motivi di insoddisfazione c’è l’inefficienza del servizio (38%), la scomodità (31%), la carenza di punti di utilizzo (31%) e i costi (31%).

Cresce la sensibilità per l’ambiente
Biciclette, e-bike, monopattini e scooter elettrici stanno diventando preziosi alleati dell’ambiente in ogni spostamento quotidiano. Se attualmente la quasi totalità del campione intervistato dichiara di avere almeno un’automobile in famiglia, 1 su 2 conferma di possedere anche una bici o un monopattino, “muscolari” o elettrici. Su un dato gli italiani poi risultano d’accordo: guardando al 2030 l’ambiente, anche in tema di mobilità, dovrà essere sempre più tutelato. 
Ma come? Per il 35% limitando al massimo o addirittura abolendo l’uso di veicoli inquinanti in città, per il 36% utilizzando solo mezzi di trasporto ecologici e per il 29% facendo ricorso alla mobilità multimodale per gli spostamenti.

Gli italiani sognano città green
I risultati dell’indagine mostrano, nelle proiezioni al futuro, una popolazione ancora più attenta alle tematiche ambientali: la quasi totalità infatti si aspetta l’adozione di carburanti 100% ecologici (89%) e automobili full electric (81%). Per 1 intervistato su 3 nei centri urbani dovrebbero esserci parcheggi nascosti alla vista (33%) o dovrebbe essere addirittura vietata la circolazione per ridurre lo smog cittadino (30%).   Tra le innovazioni futuristiche maggiormente apprezzate in tema di mobilità, anche il ricorso ad automobili con guida autonoma (62%), e la possibilità di disporre di auto capaci di allungarsi o accorciarsi in base alla disponibilità di parcheggio (42%).

Come verranno spesi i soldi dell’Europa? I timori degli italiani

Come devono essere usati i soldi del Recovery fund? Le preoccupazioni degli italiani sul Pnrr vertono soprattutto sullo spreco delle risorse e sulla corruzione. In particolare, il 75,5% degli italiani teme che dalla pressione a spendere in fretta possa derivare una riduzione dei controlli, spianando la strada all’illegalità, mentre il 56,4% sostiene che le risorse vadano spese velocemente, ma con meccanismi affidabili di verifica del rispetto di norme e regole. Per il 30,4% poi servono controlli ferrei da parte dello Stato, anche a costo di rallentamenti, mentre per il 6,5% bisogna azzerare del tutto i controlli per spendere le risorse con la massima celerità. Questi alcuni dei risultati emersi dallo studio La certificazione accreditata al servizio del Recovery plan, realizzato dal Censis in collaborazione con Accredia, l’Ente unico nazionale di accreditamento.

Burocrati e lobby: i nemici del Recovery plan.

Il 75,8% degli italiani inoltre teme l’eccesso di potere delle burocrazie, il 66,6% che troppe leggi e regolamenti cui attenersi possano rallentare l’impiego delle risorse, il 65,7% che non ci siano garanzie sul fatto che quelli approvati siano i progetti migliori, e il 65% teme che gli investimenti vengano dirottati su questioni non prioritarie. Ma il timore avvertito maggiormente, condiviso dall’80,4% degli italiani, è che vincano le pressioni delle lobby, gli interessi particolari, con un orientamento delle risorse verso il vantaggio di pochi e non a favore dell’intero Paese.

Più Pil da controlli veloci e affidabili attraverso la certificazione accreditata

Spendere presto e bene è dunque la sfida per le istituzioni e la PA. Servono perciò strumenti utili a far coesistere la verifica del rispetto delle regole con l’impiego rapido dei fondi. Negli ultimi anni si sono dimostrati molto efficaci gli oltre 2.000 organismi e laboratori accreditati del settore Tic (Testing, Inspection and Certification) con il rilascio di certificazioni per imprese, professionisti, prodotti e servizi.

Con un più ampio ricorso alla certificazione accreditata verrebbero amplificati anche i benefici ambientali e sociali, per un valore stimato in 2,2 miliardi di euro annui. Ipotizzando l’obiettivo di arrivare a 150.000 imprese certificate sotto accreditamento si genererebbe un valore aggiuntivo pari a 30 miliardi di euro entro il 2023.

La domanda di certezze su prodotti e imprese da parte dei consumatori

Sempre più maturi nel rapporto con i consumi, gli italiani vogliono che i prodotti e le imprese rispettino determinati requisiti.

Il 95,2% chiede infatti la sicurezza dei prodotti che acquistano, il 90,8% il rispetto di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, il 90% il rispetto rigoroso dell’ambiente, l’87,7% l’attenzione alla qualità delle imprese, l’86,7% il rispetto della legalità, il 78,7% il rispetto della privacy. Garanzie che il 91,7% dei consumatori è convinto di ottenere dalla certificazione di prodotti, servizi e imprese, in quanto conformi alle norme vigenti e ai codici etici.