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Omnicanalità, cresce l’interesse delle aziende, ma la maturità è ancora limitata

Nell’ultimo anno l’interesse delle imprese italiane nei confronti dell’omnicanalità è aumentato notevolmente, ma solo circa un’azienda su cinque ha strutturato una ‘vista unica sul cliente’, che consenta di avere una reale conoscenza delle loro caratteristiche e dei loro interessi. La scarsa maturità delle aziende nell’approcciare l’omnicanalità si riflette anche sull’attività di Data Activation. Se un’azienda su tre giudica almeno buona la propria capacità di generare valore di business dai dati raccolti solo il 6% la ritiene ottima. Di fatto, portare avanti la trasformazione omnicanale, come evidenziato dalla quinta edizione dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience, promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano, richiede di lavorare su quattro pilastri, Strategia, Organizzazione, Dati e Tecnologie.

I pilastri dell’omnicanalità

Una condizione necessaria per il successo di una trasformazione omnicanale è la presenza di una chiara strategia e di un forte commitment del top management in grado di guidare il cambiamento in maniera strutturata. Sebbene l’83% dei casi analizzati dichiari che il vertice aziendale risulti coinvolto nel monitoraggio delle iniziative, per metà delle aziende l’Omnichannel Customer Experience è una priorità strategica solo ‘a parole’: nei fatti mancano gli strumenti tecnologici e organizzativi per attuarla. Occorre poi lavorare sul terzo pilastro, quello relativo ai Dati, impostando una omnichannel data strategy e dotarsi delle opportune Tecnologie per raccogliere e gestire in maniera integrata i dati sui clienti. Così da valorizzarli in chiave di personalizzazione dell’esperienza cliente e miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dei processi di marketing, vendita e customer care. 

Il grado di maturità delle aziende

Incrociando la valutazione dell’approccio delle imprese a livello strategico-organizzativo e a livello di dati e tecnologie, emergono cinque diversi cluster che rappresentano il grado di maturità omnicanale delle aziende. Gli Omnichannel Master, il segmento omnicanale maggiormente evoluto, rappresentano il 9% delle aziende del campione, principalmente appartenenti ai settori Energy, Utility e Oil&Gas, Telco e Bancario e assicurativo. Il segmento degli Omnichannel Novice, rappresenta invece il 21%, soprattutto nei settori Industriale/B2b, Beni di largo consumo e Beni durevoli. Tra questi due estremi, si posizionano gli altri tre cluster, ciascuno con un’incidenza prossima al 25%: gli Omnichannel In-Progress, i Committed, e i Tactician.

L’impatto dell’OCE sui processi di gestione del cliente

I benefici di un approccio omnicanale si esplicano in maniera significativa all’interno dei processi aziendali deputati alla gestione del cliente. In particolare, Marketing e Comunicazione, Vendite e Customer Care. Il processo di Marketing e Comunicazione data-driven si compone di tre fasi principali: profilazione della customer base, content management e personalizzazione, e delivery delle iniziative, e per il processo di Vendita, lead management, personalizzazione dell’esperienza e attivazione di servizi omnicanale e di assistenza alla vendita. Per trasformare invece il processo di Customer Care, è necessario agire sulla progettazione di un processo integrato a livello di conoscenza e di canali di assistenza, e sull’adozione di opportune tecnologie e strumenti a supporto della fase di interazione con il cliente.

Economia circolare: i consumatori chiedono più impegno alle aziende

Comprare prodotti durevoli, riciclabili o fatti con materiali riciclati, e utilizzarli a lungo attraverso manutenzioni e riparazioni efficaci. Questi sono i comportamenti ‘circolari’ dei consumatori sostenibili. Per le aziende significa invece sviluppare prodotti e modelli di business che non producano rifiuti, ridurre l’uso di materie prime e prevedere la restituzione o il recupero di prodotti e imballaggi.
Insomma, le aziende devono adottare modelli di economia circolare per soddisfare le richieste dei consumatori, e mitigare i rischi futuri legati alla supply chain. Contrariamente al modello economico lineare l’economia circolare è infatti rigenerativa, e mira a separare gradualmente la crescita dal consumo di risorse finite.

Cresce il desiderio di un consumo consapevole

Con l’aumento della consapevolezza sul tema dei rifiuti e dell’esaurimento delle risorse cresce il desiderio da parte dei consumatori di adottare pratiche di consumo consapevole. Secondo il rapporto del Capgemini Research Institute, ‘Circular economy for a sustainable future: How organizations can empower consumers and transition to a circular economy’, il 54% dei consumatori vuole adottare pratiche come ridurre i consumi complessivi, acquistare prodotti più durevoli (72%) e conservare e riparare i prodotti per aumentarne la durata (70%).  Tuttavia, quasi il 50% è convinto che le organizzazioni non stiano facendo abbastanza, mentre il 67% si aspetta che le organizzazioni siano maggiormente responsabili quando pubblicizzano i prodotti, senza incoraggiarne un consumo eccessivo.

Le organizzazioni faticano ad adottare azioni concrete

Le organizzazioni faticano però a intraprendere azioni concrete legate a pratiche di economia circolare, malgrado i consumatori si rivolgano sempre di più a quelle che lo fanno. Questo accade in particolare in ambiti dove la consapevolezza dei consumatori è maggiore, come i rifiuti alimentari e quelli di plastica. Il 44% dei consumatori ha infatti aumentato la propria spesa negli ultimi 12 mesi verso aziende alimentari che si impegnano nel riciclo, nel riutilizzo e nella riduzione dei rifiuti, ma in generale i consumatori sono limitati nelle loro scelte da questioni di praticità, accessibilità e costo.

I motivi che impediscono di intraprendere azioni circolari positive

Tra i motivi che impediscono di intraprendere azioni circolari positive, riferisce Adnkronos, il 60% dei consumatori cita la mancanza di informazioni sufficienti sulle etichette dei prodotti, per il 55% i costi elevati sono un ostacolo alla riparazione dei prodotti, e il 53% non vuole scendere a compromessi sulla comodità.Questa è una conseguenza del boom dell’e-commerce degli ultimi 10 anni, che ha alzato gli standard offrendo servizi convenienti a basso costo, come la consegna il giorno successivo o addirittura il giorno stesso. Nonostante gli sforzi normativi per estendere la durata di vita dei prodotti, attualmente gli approcci di consumo circolare si concentrano principalmente sulla fase post-utilizzo, con il 58% dei consumatori che dichiara di separare e smaltire i rifiuti alimentari dopo l’uso, ma solo il 41% di comprare cibo con un imballaggio minimo, sottolineando la scarsità di opzioni disponibili.

Monopattini elettici: uno su tre è assicurato

Il DL infrastrutture recentemente approvato ha introdotto diverse novità per i monopattini elettrici, ma il Governo ha deciso di non inserire l’obbligo di assicurazione, lasciando l’imposizione solo per le società di noleggio. Infatti, uno degli emendamenti al DL prevedeva l’introduzione dell’obbligo di assicurazione e casco, nonché di targa da apporre al mezzo, ma la proposta è stata bocciata. Ma fra i possessori dei monopattini molti sono propensi a tutelarsi, tanto che come emerge dall’indagine commissionata da Facile.it agli istituti mUp Research e Norstat, quasi 1 conducente su 3 ha già acquistato una copertura assicurativa.

Chi non possiede il monopattino chiede misure più severe 

Curiosamente, la proposta trova maggiori consensi tra chi non possiede né usa questo mezzo. In particolare, il 76,8% è d’accordo con l’obbligo di casco, il 70,3% con l’assicurazione e il 56,1% con la targa. Quanto a chi invece ha un monopattino, solo il 50,9% è favorevole all’introduzione del casco obbligatorio, il 36,8% all’assicurazione e il 31,6% alla targa. Sul fronte assicurativo, il 17,3% ha una copertura per eventuali infortuni alla guida, mentre il 16% ha una polizza per danni a terzi. Inoltre, il 30,7% sta valutando di sottoscrivere una copertura, mentre 1 su 5 non è a conoscenza di questi prodotti.

Le infrastrutture stradali sono ancora inadeguate

Nonostante il crescente numero di monopattini in circolazione, a giudizio di chi si sposta con questo mezzo, le infrastrutture stradali sembrano ancora oggi inadeguate. Quasi 2 intervistati su 3 ritengono che gli spazi destinati all’uso del monopattino siano insufficienti e non adatti (64%), e la percentuale arriva addirittura al 71% al Sud e nelle Isole. Ma quanto sono diffusi i monopattini in Italia? Secondo l’indagine sono circa 2,5 milioni gli italiani che oggi lo utilizzano. Di questi, circa 1,9 milioni ne hanno uno di proprietà, mentre poco più di 600mila usano quelli a noleggio.

Il mezzo di trasporto ideale per raggiungere il luogo di lavoro

Il mezzo sembra aver conquistato tutti: uomini e donne lo usano in egual misura (7%), mentre quanto all’età del conducente è diffuso in modo particolare tra i giovani con età 25-34 anni e 18-24 anni. A livello territoriale, invece, il monopattino è utilizzato soprattutto tra i residenti nel Nord Ovest (9,6%), a fronte di una media nazionale pari al 7%. Una platea che nei prossimi anni potrebbe aumentare notevolmente, se si considera che 3,4 milioni di italiani hanno dichiarato di stare valutando la possibilità di acquistarne uno. Infatti il monopattino elettrico si sta consolidando sempre più come mezzo di trasporto per raggiungere il luogo di lavoro: oggi il 33% lo usa proprio per questa finalità, percentuale che arriva al 45% nei Comuni con oltre 100 mila abitanti.

Stranieri in azienda: nel rapporto Ipsos la “fotografia” italiana

Si intitola “Difficoltà ed opportunità d’inclusione degli stranieri in azienda” l’indagine Ipsos condotta per  l’UN Global Compact Network Italia, realtà con cui nel nostro Paese opera il Global Compact delle Nazioni Unite con un piano di lavoro tutto incentrato su sviluppo, sostenibilità e responsabilità d’impresa. Da poco presentato nel corso della 6° edizione dell’Italian Business & SDGs Annual Forum, l’appuntamento annuale dell’UN Global Compact Network Italia, il sondaggio evidenzia una realtà variegata e la grande importanza che riveste la leadership nel gestire e attribuire valore alla multiculturalità.

Il bisogno di manodopera la rincipale motivazione 

Innanzitutto, il rapporto Ipsos risponde alla domanda “perché”, cioè perché si assumono dipendenti stranieri. Secondo i dati raccolti, le principali motivazioni all’inserimento degli stranieri risultano essere la necessità di manodopera, ma anche una scelta dettata da un’autentica vision. Come dimostra il sondaggio, infatti, più del 70% delle aziende a proposito dell’assunzione di persone straniere considera maggiori le opportunità rispetto alle difficoltà dell’inserimento. Per quanto riguarda le diverse figure, più del 72% delle aziende ha almeno un dipendente straniero arrivato in Italia per motivi legati a scelte non forzate dalla necessità economica o di sicurezza personale, il 45% almeno un migrante e il 9% almeno un richiedente asilo o rifugiato politico. Ovviamente, niente ormai può prescindere dal Covid -19 e anche lo studio Ipsos ha indagato l’effetto della pandemia su questo tema così delicato. Ebbene, le notizie sono buone: almeno qui, non si evidenziano particolari scossoni. Infatti, per quanto riguarda l’impatto della pandemia, le aziende intervistate non rilevano una ripercussione negativa sul piano economico e psicologico da parte degli stranieri se non in percentuali al di sotto del 5%. 

La leadership è fondamentale per l’inclusività

Il ruolo della leadership è decisivo per l’inclusività per più del 50% delle aziende. Una quota simile, inoltre, sostiene che siano proprio i manager a vedere valore nella multiculturalità.  Numeri alla mano, è poco più di 1 azienda su 3 ad avere un programma di responsabilità sociale di impresa. Questi programmi sono relativi alla multiculturalità in azienda nel 29% casi, mentre prevalgono nettamente la sostenibilità ambientale (82%) e il benessere dei lavoratori (63%). Nel complesso, i dati della ricerca Ipsos evidenziano che le aziende Global Compact che si mostrano più impegnate nell’inclusione degli stranieri presentano anche una maggiore frequenza di programmi e iniziative di vario tipo spinte anche da programmi di responsabilità sociale di impresa più diffusi. Una più spiccata attenzione all’inclusività e il maggiore sviluppo di programmi dedicati porta inoltre, come conseguenza, una più forte consapevolezza delle difficoltà e dei limiti, oltre che una maggiore autocritica.

Rapporto Noi doniamo 2021: la propensione al dono durante la pandemia

Il Rapporto Noi doniamo 2021 dell’Istituto Italiano della Donazione (IID) misura le pratiche e la propensione al dono degli italiani utilizzando diverse fonti, tra cui le ricerche BVA Doxa Italiani Solidali, e il Tracker settimanale condotto fin dal primo lockdown del marzo 2020. Il 2020 è stato un banco di prova inedito per misurare la propensione al dono degli italiani. Per tale ragione la quarta edizione del rapporto riproduce un’immagine profondamente segnata dalla situazione. Infatti, come emerge dai dati BVA Doxa, la generosità degli italiani nel 2020 ha visto un incremento complessivo dovuto all’emergenza sanitaria e alle iniziative volte a contenerla, ma l’emergenza stessa ha provocato un drenaggio importante di risorse economiche dalle cause classiche per cui gli italiani hanno sempre donato.

Nel 2020 meno occasioni dove esercitare forme di solidarietà informali

Nel 2020 la quota di cittadini che hanno effettuato donazioni informali, ovvero non passando tramite una associazione, come donazioni alla Messa, elemosina per strada, raccolte informali a carattere religioso e non, donazioni per la scuola e altro, registra un calo rilevante, passando dal 41% del 2019 al 33% del 2020. Ciò è dovuto sicuramente alla minore densità di occasioni dove esercitare tale forma di solidarietà, prima di tutto la Messa, proprio a seguito dell’emergenza sanitaria.

ONP, l’impatto Covid ha determinato un calo di risorse economiche

Anche sul fronte delle donazioni alle ONP il monitoraggio di BVA Doxa registra un calo: nel 2020 la percentuale di donatori risulta pari al 21% degli italiani, contro il 26% del 2019 e il 28% del 2018. Se, come emerso dal Tracker settimanale Doxa, complessivamente circa un italiano su 3 ha donato per l’emergenza sanitaria tra marzo e aprile 2020, allo stesso tempo non ha effettuato alcuna donazione per un’organizzazione non profit nel corso dell’anno. È un dato importante perché rappresenta la stima di coloro che a causa della pandemia hanno fatto mancare il proprio sostegno alle ONP, che hanno subito e stanno subendo l’impatto dell’emergenza in termini di mancate risorse economiche.

Volontariato e donazioni biologiche messe alla prova dalla pandemia

Anche la donazione di tempo e capacità, il volontariato, è stata messa alla prova dalla pandemia. I lockdown più o meno restrittivi hanno impattato fortemente sulla possibilità stessa di fare volontariato da parte degli italiani. Secondo l’indagine AVQ Istat la quota di coloro che hanno svolto attività gratuite in associazioni è calata dal 9,8% al 9,2%. Anche sul fronte delle donazioni biologiche l’impatto della pandemia è stato preoccupante. Secondo i dati forniti dal Centro nazionale sangue, il numero di coloro che hanno donato il sangue nel 2020 è calato del 3,4% rispetto al 2019, e la quota di nuovi donatori è diminuita del 2%. Complesso anche l’impatto della pandemia sulle donazioni di organi e midollo, e si è registrato anche un lieve calo dei consensi alla donazione degli organi sui rinnovi dei documenti di identità.

Nuove etichette anche per le lampadine, migliora l’efficienza energetica

Se per gli elettrodomestici la nuova etichettatura è entrata in vigore già dal primo marzo, dal primo settembre viene applicata anche alle sorgenti luminose. Le nuove etichette energetiche per gli elettrodomestici sono state introdotte in tutta Europa per offrire ai consumatori informazioni più semplici e smart, e migliorare l’efficienza energetica. Per quanto riguarda le sorgenti luminose, come appunto le lampadine, tra le maggiori novità della nuova etichetta c’è il ritorno a una classificazione più semplice, con la scala di 7 classi di efficienza energetica, colorata da verde a rosso, da A (migliore) a G (peggiore). Lo ricorda Selectra, il servizio gratuito che confronta e attiva le tariffe di luce, gas e internet. 

Le nuove etichette evidenziano il consumo di energia

Addio alle classi supplementari caratterizzate dal segno +, ed è previsto anche un riscalaggio periodico, ogni circa 10 anni, o quando una significativa percentuale di modelli sarà presente nelle due classi di efficienza più elevate. Per quanto riguarda le sorgenti luminose, la nuova etichetta energetica diventa obbligatoria per sorgenti luminose con o senza unità di alimentazione integrata, direzionali e non direzionali, sorgenti luminose parte di un prodotto contenitore. Oltre a mostrare il nome o il marchio del costruttore e del modello, le nuove etichette delle sorgenti luminose evidenziano il consumo di energia in kWh se accese per 1.000 ore, e riportando le classi di efficienza energetica, indicano a quale di queste appartiene il modello preso in considerazione.

Parola d’ordine, digitalizzazione

Parola d’ordine, inoltre, è ‘digitalizzazione’: viene infatti introdotto un QR code che scansionato tramite la fotocamera dello smartphone permette di conoscere informazioni supplementari sul prodotto presenti nella banca dati europea Eprel (European product registry for energy labelling).

Ma quali lampadine scegliere?

Per poter emettere luce, una lampadina consuma energia elettrica pari a quanti Watt sono necessari per attivarla, un consumo che finisce infatti direttamente in bolletta luce, alla voce ‘spesa per la materia energia’.
Ogni lampadina ha quindi una potenza espressa in Watt, alla quale sarà associato sull’etichetta un consumo in kWh per 1.000 ore di uso/accensione.

Quali fra Led, fluorescenti o alogene? 

Una lampadina Led, ad esempio, ha un consumo di circa 35 kWh/anno e un costo medio in bolletta di 7 euro/anno. Tale lampadina, con la nuova etichettatura, sarà inserita in classe D o E, a seconda delle prestazioni specifiche. Consumi appena superiori ha una lampadina fluorescente, che con 41 kWh/anno e 8 euro/anno in bolletta finirà in classe F. Un modello alogeno arriva invece a consumare 123 kWh/anno, facendo salire il costo medio in bolletta a 25 euro: tale lampadina finirà in classe G. Senza considerare le lampadine a incandescenza (ormai fuori commercio) che con un consumo di 175 kWh/anno avrebbero portato il costo medio in bolletta a 35 euro/anno.

Aiuto, che spreco: il 17% del cibo mondiale finisce nella spazzatura

Lo spreco alimentare non è solo uno sfregio a quella gran parte di mondo che non ha da vivere, ma è anche un autentico attentato alla sostenibilità ambientale e climatica. A lanciare l’allarme è il nuovo Food Waste Index Report 2021 del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) e l’organizzazione Wrap: nel 2019 sono infatti finiti nella spazzatura  931 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari prodotti ogni anno nella fase di consumo, per un peso equivalente a quello di 23 milioni di camion da 40 tonnellate a pieno carico. Di questi, il 61% è prodotto dalle famiglie, nelle nostre case. E proprio la riduzione degli sprechi alimentari è uno degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, così da dimezzarli entro il 2030. 

I numeri dello spreco a livello mondiale

Più nel dettaglio, il Rapporto evidenzia che le famiglie scartano l’11% di alimenti, mentre servizi e punti vendita al dettaglio ne sprecano rispettivamente il 5% e il 2%. A livello globale vengono gettati 121 chilogrammi di cibo a testa l’anno, con 74 chilogrammi a livello familiare, molto di più di quanto precedentemente stimato. Uno spreco che ha gravissimi impatti ambientali, sociali ed economici.

Una sfida vitale per il clima

Esistono anche strette connessioni tra clima e spreco alimentare. A livello globale, tra l’8 e il 10% delle emissioni di gas serra sono dovute al cibo non consumato. Se lo spreco alimentare rappresentasse un paese, sarebbe il terzo più grande emettitore di gas serra, dietro Cina e Stati Uniti. Riuscire a ridurre il food waste, secondo gli esperti dell’Onu, significherebbe portare a un taglio delle emissioni di gas serra, a rallentare la distruzione della natura attraverso la conversione dei terreni, all’aumento della disponibilità di cibo e quindi ridurre la fame.

Un problema globale da correggere

Contrariamente a quanto suggerito finora dagli studi, lo spreco alimentare dei consumatori non è nemmeno appannaggio dei paesi a più alto reddito. Per Clémentine O’Connor, responsabile del programma per i sistemi alimentari sostenibili presso l’Unep, “E’ il momento di agire”. Lo studio evidenzia infatti che esiste una criticità che riguarda tutti i paesi, che devono necessariamente rendersi conto della gravità della situazione. Proprio per questo, l’Unep sta istituendo gruppi di lavoro in Asia, Sud America e Africa per aiutare i governi a sviluppare strategie per misurare lo spreco e a progettare strategie di prevenzione del food waste. 

La selezione del personale? Da reale a … virtuale, ma super efficace

l Virtual Recruiting, ovvero la selezione del personale a distanza, con relativi colloqui, è ormai una prassi per moltissime aziende. Che ne decantano la validità: mentre sullo smart working i pareri non sono tutti positivi, la selezione a distanza ha convinto invece un gran numero di candidati. Il 60% delle persone intervistate da CleverConnect a maggio 2020 ha trovato l’esperienza positiva. Per le aziende, il lockdown prima e la diffusione dello smart working poi hanno portato a un ripensamento del proprio processo di selezione. L’impossibilità di condurre un colloquio in presenza ha spinto le imprese ad accelerare la digitalizzazione e a optare per colloqui virtuali e da remoto.

Un’attività “non essenziale”: ma è davvero così?

Nel 2020, complice l’emergenza sanitaria, molte attività considerate non essenziali sono state quasi “congelate”, e i colloqui di selezione rischiavano di finire in questo spazio vuoto. Le aziende italiane, però, hanno dimostrato un’eccezionale resilienza e la capacità di innovarsi per poter proseguire nei processi di selezione. Al di là del periodo di crisi, in realtà, già da tempo le imprese stanno sperimentando i colloqui video a distanza, ma durante il lockdown questi hanno registrato un boom del +40%, percentuali in crescita che durano tutt’oggi. I recruiter si sono resi conto che il video è un approccio adatto a risparmiare molto tempo, a favore anche dei candidati. Per alcune posizioni il video può tranquillamente sostituire del tutto il CV o il classico colloquio telefonico. In questi casi, il risparmio di tempo è veramente senza precedenti.

L’evoluzione della ricerca di lavoro

Anche grazie alla tecnologia, gli individui sono al centro del processo di ricerca di un’occupazione. Non per niente, l’89% dei candidati inizia la ricerca di lavoro sul web, visitando portali dedicati, job board e pagine Lavora con noi. Dal momento della candidatura, però, il processo di selezione resta sempre lo stesso: invio del CV, lettera di presentazione, colloquio telefonico, incontro fisico. Le soluzioni digitali, invece, stanno gradualmente scuotendo questo ordine consolidato per offrire un’esperienza innovativa e molto più flessibile. Il tempo che non viene speso per organizzare e programmare gli incontri fisici consente al recruiter di concentrarsi su altre attività ad alto valore aggiunto, come creare una relazione e interagire con i candidati dall’inizio alla fine del processo. Il virtual recruiting, inoltre, aiuta a diversificare il profilo dei candidati e quindi migliora l’efficienza e la qualità delle assunzioni: non limitandosi alle informazioni del CV, ma concentrandosi sulle soft skill, alcuni candidati hanno l’occasione di dimostrarsi profili veramente validi.

Manager e smart working, una ricerca di Fiera Milano Media

Nonostante le imprese italiane sembrano rimanere più propense all’outsourcing anziché all’investimento di risorse per lo sviluppo, l’innovazione e l’automazione della propria attività lo smart working rimane un caposaldo delle strategie di business anche per il futuro. Si tratta di un’evidenza emersa dal report Business Leaders Survey, realizzato da Business International-Fiera Milano Media tra aprile e maggio 2021 su un campione di oltre 200 direttori finance, HR, procurement, sales, marketing e del risk management attivi in alcune delle più importanti società di medie e grandi dimensioni operanti in Italia.

La principale misura di contrasto adottata contro gli impatti del Covid-19

Secondo il 40% degli intervistati lo smart working è stata la principale misura di contrasto adottata contro gli impatti del Covid-19, e su cui un ulteriore 25% dichiara di voler puntare nei prossimi mesi, mentre il 48% ammette di volerlo mantenere stabilmente come modello lavorativo anche per il futuro. Ovviamente la cassa integrazione straordinaria ha avuto un ruolo importante nel superamento delle difficoltà, come conferma il 17,5% degli intervistati. Quello che però stona è il fatto che sebbene solo il 5,5% delle aziende ha bloccato gli investimenti nel 10% dei casi le società hanno preferito esternalizzare l’ottimizzazione dei propri processi operativi piuttosto che provare a puntare sull’innovazione, l’automazione e la robotizzazione dei propri servizi, su cui si è impegnato solo l’1%.

Per il 6% la società in cui lavora ha cambiato il proprio modello di business

Il 6% degli intervistati dichiara poi che la sua società ha cambiato il proprio modello di business per fronteggiare le criticità proposte dalla pandemia, mentre nei prossimi mesi il 13% prevede questo intervento, e gli intervistati che dichiarano di voler implementare soluzioni di robotizzazione e automazione salgono all’8,5% (+850%). Valori in aumento che però non bastano a consentire una reale ondata di cambiamento. Nel 24% dei casi l’attenzione sull’outsourcing continuerà infatti a essere focalizzata anche nei prossimi mesi. In ogni caso, il 23,7% pensa che anche per il futuro resilienza, flessibilità e tolleranza allo stress saranno qualità cruciali per il successo, mentre creatività, originalità e iniziativa risultano al secondo posto (16.3%).

Le competenze desiderate dai C-level per affrontare i prossimi mesi

L’attenzione è ancora su distanziamento sociale e necessaria riorganizzazione delle attività, riporta Italpress, e pone Team work e time management (10%) in terza posizione, seguiti poi a pari merito da formazione e apprendimento continuo (9%) e Critical thinking e predictive analytics (9%).  In fondo alla classica si trovano proprio quelle competenze tecniche che le aziende faticano a trovare sul nostro mercato, come data analysis e innovazione (8,7%), technology use/design, computational thinking & programming (2,7%).
L’ultimo aspetto rilevato dalla ricerca sullo smart working è il fatto che skill come leadership e social influence (8%), problem solving (7,6%) e Intelligenza emotiva (4,8%) risultano in fondo alle competenze desiderate dai C-level per affrontare i prossimi mesi.

Gli eventi digitali continueranno anche nel post pandemia

Il ritorno alla normalità tanto atteso, dopo tutte le limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria, sta finalmente avvenendo. E, sia sul piano personale sia su quello professionale si riprendono via via abitudini accantonate per lunghi mesi. Ad esempio, a breve potranno ripartire anche in Italia fiere, convegni e congressi in presenza, benissimo, un ‘ottima notizia per il settore degli incontri. Eppure, una netta maggioranza delle aziende continua a programmare eventi virtuali o ibridi anche per la fine del 2021 e per il 2022. Questo è quanto emerge da un’indagine interna di Emeraude Escape, secondo cui l’ascesa degli eventi digitali interattivi in ambito B2B non si fermerà nemmeno nell’era post Covid 19.

Un format che piace anche nel new normal 

In particolare, i format virtuali – adottati da una grandissima parte delle imprese nell’impossibilità di svolgere quelli “reali” – hanno molto spesso ottenuto un successo ben oltre le aspettative, riporta la ricerca. Proprio per tale ragione, questa modalità che si è progressivamente affermata dall’inizio della pandemia, pare perdurerà anche in presenza di minori restrizioni e per un periodo di tempo piuttosto lungo. Infatti, in base a un’indagine interna di Emeraude Escape, società francese specializzata nella progettazione di soluzioni di gamification su misura per il business, il 90% delle aziende continuerà a scegliere eventi digitali oppure ibridi, ovvero in parte in presenza e in parte virtuali, al posto di quelli fisici per tutto il 2021 e il 2022.

Si va verso un modello ibrido negli incontri

La tendenza anche per i mesi a venire, quindi, sembra essere orientata verso un modello ibrido anche per quanto riguarda il comparto degli incontri e degli eventi. Come spiega una nota della società che ha condotto la ricerca, infatti, “Oltre ai buoni risultati che si sono potuti riscontrare sul campo, le limitazioni che rimarranno presumibilmente vigenti ancora per molti mesi anche nel nostro paese, come il numero massimo di persone, la necessità di dispositivi di protezione individuale, di frequenti disinfezioni e di altre incombenze, insieme alla maggiore flessibilità e alle nuove opportunità offerte dal digitale, stanno inducendo numerose realtà a preferire gli eventi virtuali o ibridi anche per il prossimo anno”. Si tratta di una previsione viene confermata anche da uno studio recentemente svolto da LinkedIn in Francia, secondo cui il 69% degli organizzatori di eventi B2B ha dichiarato che continuerà a proporre seminari e convegni digitali o ibridi per i prossimi 12 mesi.